L'UMANITA' IDEALE

"L'Umanità Ideale"... per sognare, per amare, per vivere la Bellezza. Un percorso tra arte figurativa, poesia, gusto, suoni ....
Opere di Gianni Maran e Silvano Spessot.

Gianni Maran con"Semo una carne sola". La mostra è un percorso profondo del Maestro Maran per la sua amata Grado dedicandola al suo più illustre cittadino Biagio Marin. Le opere esposte saranno accompagnate dalle poesie che le hanno ispirate, tratte dalla raccolta "The Island" (raccolta con la quale fu candidato al premio Nobel nel 1982). L’esposizione è reduce da Roma e Bruxelles e gode del patrocinio del Centro Studi Biagio Marin.
Silvano Spessot esporrà un selezione di opere degli Omini. In questa serie di lavori, Spessot stabilisce un contatto immediato con la committenza attraverso l' escamotage di questa figura pseudo antropomorfa, senza però rinunciare alla forza del suo incedere cromatico e materico. Il maestro Spessot, è reduce da una sua grande antologica nella chiesa di San Francesco a Udine.
Immancabile Adelia Di Fant con le sue creazioni al cioccolato, piccoli capolavori di gusto e bellezza ispirati al tema.
Alle ore 18.30 di sabato 6 aprile andrà in scena una selezione di poesie di Biagio Marin lette e interpretate da Eros Gregori e Gianni Maran.
Ingresso libero.


maran_1_0.jpgspessot_due_web.jpgMARAN E SPESSOT. L’UMANITÀ IDEALE
Giovanna Barbero
Ciò che accomuna due artisti apparentemente così dissimili, quali sono Gianni Maran e Silvano Spessot, è la comunicatività del loro operare artistico, esplicita e subliminale, che punta dritto al segno senza intermediazioni. In particolare un messaggio caro ad entrambi, fondamentale per la società a prescindere dai progressi tecnologici, riguarda la maturità spirituale dell’individuo e il suo apporto personale di bene alla collettività. È un pensiero che introduce ad un rinascimento attuabile nel terzo millennio per il quale si auspica l’avvento di una “umanità ideale” che non sia una filosofia dell’utopia, bensì una filosofia di vita. Come ne “La città ideale” di cinque secoli fa, nelle opere di Maran e Spessot è indicato un programma di perfezione da applicare all’estetica, non più urbana e architettonica, ma della persona singola e, conseguentemente in modo naturale, della comunità. Pittura e scultura, memori delle esperienze culturali e scientifiche, si avvalgono delle regole auree, che dalle intuizioni di Fidia sono passate attraverso gli studi sulla successione numerica di Fibonacci, per cui ogni opera si conclude nel rispetto del rigore matematico adeguato alla lirica espressiva. Nei dipinti di Maran più evidente, nelle sculture di Spessot più implicita, la pianta centrale della struttura intorno alla quale si sviluppa il lavoro è perfetta perché è in sé chiusa e conclusa e corrisponde alle proporzioni auree. Nei primi l’uomo è verbo, pensiero, intorno a cui ruota l’universo di creature rappresentate da pesci, tutti uguali anche nella scarnificazione, che fluttuano con andamento regolare in un ambiente fatto di energie fisiche, non corporee; nelle seconde, l’uomo ha assunto volume e si impone come certezza e presenza incisiva, sia isolato che nel gruppo, raccoglie in sé tutte le peculiarità di essere superiore, senza considerare una identità definita propria e modella lo spazio intorno e, idealmente, quello mentale. Forme nelle forme per costruire altre forme e insiemi programmati, che dal colore traggono potenza simbolica ed espressiva, assieme alle parole, proprie dell’artista o prese in prestito, anch’esse organizzate sull’area, determinano l’iconografia di Gianni Maran, che ha la caratteristica di generare effetti ottici di mutamenti, risucchi e vortici virtuali. “Ode alla vita” o “Il gioco della vita”, fin dai titoli si ha una chiara chiave di lettura delle opere nelle quali si è introdotti da quel segno convenzionale noto a tutti, più immediato, che è la scrittura, ma che qui assume un ruolo estetico per completare l’immagine e si inserisce nel contesto del lessico globale. Una sorta di voce della coscienza che si insinua tra i percorsi, discreta, mai “nero su bianco”, bensì colori tenui su toni decisi, regolare, scorrevole per la vista prima che per la lettura; un manifesto della vita e del saper vivere che trova nell’arte una risposta adeguata all’esigenza umana di elevazione spirituale. Qui è riposta la superiorità dell’uomo sul resto del creato. La superficie piana del dipinto, che consente una visione globale e totalizzante dell’immagine, diventa ambiente, universo, microcosmo in cui la vita si confronta col tempo, con esso si sviluppa ed evolve in un luogo fantastico; i colori ne sono simbolo ed essenza, eloquenti nei contrasti, nella convivenza di luci ed ombre, nelle cromie brillanti che degradano in toni sempre più chiari, verso il centro, contribuendo a sottolineare un’atmosfera eterea e rarefatta. In quel punto, in effetti, è la sorgente della luce che percorre un viaggio inverso, si dirama in tutte le direzioni e raggiunge il perimetro, l’esteriorità. In questa condizione l’uomo si può definire tale, ideale, quando vive illuminato dalla luce del suo intelletto. Per Silvano Spessot, la potenza dell’uomo ora si esprime anche con la materia. Gli omini singoli, poi raggruppati nelle folle e infine dispersi in luci accecanti, appena accennati o indicati, che meditavano e vagavano sulle superfici delle opere pittoriche, si sono materializzati in sagome bidimensionali, ma raggruppati numericamente a costituire il reale volume dell’opera scultorea. L’acciaio, freddo per natura, rigido e inerte, diventa vivo e vibrante tra le mani creatrici dell’artista che trasmette loro energia, il soffio vitale. L’arricchimento cromatico, ottenuto con ossidi o con smalti o vetri colorati, mantengono viva la simbologia già espressa nei dipinti e qui messa in evidenza in alcuni dettagli. Le geometrie regolari e irregolari assumono contorni antropomorfi, dove l’irregolarità sfuggita al controllo razionale diventa corpo, parte fisica, mentre la regolarità è rappresentata dal cerchio, vuoto o riempito col vetro e quindi trasparente, ossia la testa riconosciuta come la sede dell’intelletto che domina il resto. Tuttavia ognuno è senza identità, ma è un componente importante di un insieme, che a volte segue uno sviluppo verticale e si innalza in una piramide sociale; oppure, questa verticalità intende anche rappresentare le diverse tappe della crescita dell’individuo che percorre, a spirale verso l’alto, la sua personale elevazione nella ricerca della perfezione ideale. I particolari lasciano intendere che tutto è in costruzione e in divenire; entusiasmo e volontà sono i carburanti necessari al meccanismo evolutivo. Un work in progress dell’individuo e della società, con l’occhio puntato sul futuro, nelle sculture indicato sia verticalmente che orizzontalmente, nelle quali viene mostrato con forza incontenibile, tanto da uscire dalla consuetudine di un ambiente precedente, la pittura, per modellare un nuovo ambiente, lo spazio fisico e aereo. Entrambi gli artisti, dunque, hanno fissato alcuni punti che sono diventati elementi comuni, ossia il trattamento di pieni e vuoti, quindi di luce e oscurità, il coinvolgimento di insiemi, di successioni numeriche, di movimenti rotatori in spirali con svolgimento orario, quindi la ricerca di un punto di estetica ideale che può provenire dalla forma circolare, quella che determina la proporzione aurea chiusa e conclusa nel cerchio. A questa doppia mostra personale di Maran e Spessot va attribuito un valore aggiunto per il fatto che le opere sono a disposizione del pubblico in momenti felici; esse non devono essere cercate al museo, ambiente destinato ad una conservazione, condizione che può anche annullarne l’energia vitale. Qui, la forza del bello ambientale interagisce con l’estetica dell’arte e offre ai visitatori un’occasione preziosa e irripetibile di arricchimento spirituale che favorisce la crescita personale nella gioia.